Frequento assiduamente il centro Italia da sempre e non ho mai smesso di passarci le vacanze e di andarci per lavoro, neanche a breve distanza dai terremoti. I miei luoghi del cuore sono tutte le montagne, i borghi e le città d’arte dell’Abruzzo e qui ho visto, anno dopo anno, le conseguenze delle scosse dal 2009 ad oggi, dall’Aquila a Ricopiano, dalle case sventrate alle persone alloggiate tristemente negli alberghi.

Da quelle parti mi piace tornarci regolarmente perché sono luoghi che parlano al mio cuore ma anche perché trovo importante dare un contributo economico dove il turismo è diminuito a causa della sindrome “non ci vado perché potrebbe esserci un terremoto”: che chiaramente è una sciocchezza, un pregiudizio, perché allora non si dovrebbe andare neanche in molte parti altri d’Italia e in California o in Giappone. Non ho mai sentito nessuna coppia che, alle prese con la scelta della meta del viaggio di nozze abbia detto “no, le Maldive no perché poi magari c’è uno tsunami”. Il centro Italia, invece, rimane una meta che “meglio di no”, pare infatti che nelle aree del terremoto, tra Abruzzo e Marche, il calo nelle visite sia stato del 50-70%, il che equivale a una tragedia nella tragedia.

La scorsa estate, in occasione della mia consueta puntata da quelle parti, mi è successo qualcosa di inedito: per la prima volta ci sono andata con il mio compagno, il quale, in previsione di una gita all’Aquila, mi ha chiesto espressamente di vedere i luoghi devastati dal terremoto del 2009. All’inizio ero un po’ in imbarazzo, mi sembrava una richiesta un po’ morbosa, ma come, non vuoi vedere quello che è rimasto o è stato rimesso in piedi? Le famose piazze, chiese e fontane? Io lì c’ero andata per lavoro già subito dopo il tragico terremoto e poi ancora successivamente varie volte, quando tutta la città era zona rossa e si girava solo con addosso il casco di sicurezza, e mai mi ero posta la domanda: sarò mica come quelli che vogliono vedere gli incidenti in autostrada e provocano le odiose “code per curiosi”?

Ma in questa occasione, fare da guida a qualcuno interessato a vedere proprio le macerie e la distruzione mi lasciava perplessa. Tuttavia, ho deciso di farlo ed è stato un nuovo modo di vedere le cose: l’ottimismo con cui mi ero sempre avvicinata a quei posti ha lasciato spazio alla disperazione, al fastidio per la grande quantità di polvere, gru, muratori, che equivaleva, però, a pochissimi risultati, tanta voglia di fare e tanta attività che però era lontana anni luce da un risultato finale. Non mi sono sentita una curiosa del dolore privato di chi ha sofferto la morte di persone care o la perdita della casa ma mi sono sentita, semmai, appassionata testimone delle difficoltà a ripartire.
Poi è arrivata una nota davvero felice: a breve distanza da tante località completamente distrutte nel 2009, spicca un caso che ha dell’incredibile. Appollaiato sul crinale della montagna, a 10 minuti dal centro dell’Aquila, il Monastero Fortezza di Santo Spirito d’Ocre è un albergo realizzato qualche anno fa all’interno di un ex-monastero fondato nel 1222: questo luogo per secoli è rimasto immune da tutti i terremoti, grandi e piccoli, grazie alla sua struttura in pietra. “Neanche un bicchiere si è rotto” ci tengono a spiegare i gestori, parlando del terremoto del 2009 che ha, invece, distrutto la loro casa in città. E passare del tempo in quella struttura, silenziosa e soprattutto illesa, mi ha fatto capire ancora meglio che andare nei luoghi del terremoto significa avvicinarsi al brutto ma anche al miracoloso, ed è un atto il cui valore sta nel poterlo, poi, raccontare.